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lunedì 23 febbraio 2009

Alta Fedeltà - Stephen Frears

Quando si fa un confronto tra un libro e la sua trasposizione cinematografica, di solito, è sempre il primo che ne esce vincitore. Specialmente se quel libro lo abbiamo amato tra le righe, vederlo rappresentato sullo schermo è una delusione.

"Alta fedeltà" conferma questa tesi. Il film, diretto da Stephen Frears nell'anno 2000, con una sceneggiatura scritta a quattro mani (tra cui anche quelle dell'attore protagonista John Cusack), è tratto dall'omonimo romanzo di Nick Hornby.


Nick Hornby è uno dei miei preferiti, devo ammetterlo e questo gioca, inevitabilmente, a favore del libro. Nessuno come lui sa dipingere la contemporaneità con ironia, leggerezza e verità. Soprattutto lo trovo insuperabile nella descrizione di generazioni complesse, come quelle dei trentenni Peter Pan negli anni '90 di "Alta fedeltà" o quelle a noi più vicine di "Non buttiamoci giù". I suoi personaggi sono tutti figli della post-modernità e chi, come me, ha anche solo un'infarinatura di sociologia, capisce a cosa mi riferisco. I suoi ritratti psicologici dei personaggi sono dei piccoli saggi scanzonati di sociologia. Proprio come Rob Gordon, il nostro protagonista, proprietario di un negozio di dischi in crisi mistica dopo l'abbandono della fidanzata Laura, che proprio a partire dalla separazione, riflette su se stesso, sul suo passato sentimentale e oltre, fino ad arrivare a maturare. Rob è un Peter Pan spaventato e fragile, che non si mette in gioco fino in fondo in quello che fa, che scopre di non aver fatto mai sul serio con la sua donna perchè ha paura della morte, che non vuole prendersi responsabilità verso gli altri e verso se stesso. In poche parole non vuole saperne di crescere. Preferisce rifugiarsi nella musica, nella sua collezione di dischi, nel suo negozio, il Championship Vinyl. Non c'è mai stato libro con tante citazioni sulla musica pop e rock. La musica diventa una sorta di controfigura del protagonista. L'elemento davvero geniale nel libro sono le "top five"; il protagonista e i due commessi del suo negozio passano le giornate a fare classifiche su ogni cosa: i migliori lati A dei 45giri, le migliori separazioni amorose, le migliori canzoni con il tema della morte, solo per citarne alcune. Nel libro sembrano infinite, un vero spasso.


Ma mettiamoci comodi e passiamo al film. John Cusack è perfetto nella parte; mentre leggevo, avevo proprio la sua immagine in testa. L'idea di guardare direttamente in camera, per renderci partecipi dei suoi pensieri e dei suoi ricordi è d'effetto, anche se, dopo venti minuti, comincia a stancare. Naturalmente una delle cose più belle, leggendo il libro, è la possibilità di addentrarci completamente nel flusso di coscienza del protagonista. Di trovarne tutte le sfumature. Nel film è impossibile farlo. E questo vuol dire perdere l'ironia costante dei personaggi, sembra che sia lì solo accennata, ma che non riesca ad esplodere. Non parliamo poi del cambio di ambientazione; come si può passare dalla Londra del libro alla Chicago del film? Anche musicalmente parlando è una follia; due culture musicali che non hanno niente in comune in un soggetto dove la musica è una colonna portante. Inoltre, la scelta delle protagoniste femminili è una delusione, anche fisicamente i personaggi sono molto diversi da quelli del libro. Un applauso invece alla scelta di Barry e Dick, i due commessi-amici, e alla loro interpretazione (soprattutto Jack Black è strepitoso). Per finire mi sono chiesta: ma la regia dov'è finita?
In conclusione, il libro lo adori, il film ti sembra poca cosa. Uno merita di essere letto e anche riletto più volte, l'altro invece andrebbe visto una volta sola, anzi mezza.

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